Gli eserciti avversari si erano studiati a lungo dalle cime dei colli adiacenti e ora imperversavano nella valle assetati di vittoria. La vallata che poco prima li separava ospitava ora i fuochi incrociati e i sudditi dell’uno e dell’altro Re si mescolavano sulla scacchiera. Strategie di assalto e di difesa determinavano le rispettive mosse in attacchi a forchetta o inchiodature forzate. I pedoni, accuratamente protetti, aprivano o bloccavano le linee, gli astuti cavalli scavalcavano agili le difese nemiche, le torri irruente abbattevano chi si trovava sul loro cammino mentre gli alfieri, scivolando tra i ranghi, sapevano come colpire alle spalle. In simbiosi perfetta le coreografie degli uni e degli altri eserciti impostavano sul campo equilibri sempre nuovi.
Ma lo scontro divenne presto un gioco tutto dei Bianchi, che beffardi masticavano i Neri senza apparente difficoltà. Dopo aver occupato il centro, fu facile per loro impadronirsi di più di una linea. La Regina Nera era stata presa in fretta, i pedoni erano rimasti isolati e ogni altro pezzo risultava sovraccaricato. Da ormai troppe mosse i Neri s’impegnavano nell’organizzazione della difesa e non trovavano spazio per poter prendere la benché minima iniziativa. Sul colle opposto il Re Bianco si era arroccato in un antro protetto da cui osservava codardo l’evolvere degli eventi. E mentre lui sbirciava da lontano, la Regina Bianca guidava l’avanzata: fredda, impavida e feroce conduceva il suo esercito alla conquista del campo. Le torri nemiche erano state abbattute entrambe, messo alle strette fu mangiato anche un alfiere e dopo di lui fu la volta di un cavallo. L’unica perdita dei Bianchi, esclusi pochi pedoni, erano un cavallo e una torre, morti nel nobile sacrificio che era servito a prendere la Regina Nera. I Neri si difendevano con orgogliosa tenacia, ma ormai gli avversari occupavano più di metà scacchiera e le continue minacce non lasciavano spazio al contrattacco.
Torre in F5, alfiere in G7 mangia il pedone, la Regina si sposta in C2 e aspetta paziente la torre. Si muovono insieme, si proteggono a vicenda, sono un’unica entità. Bellissimi nella loro sintonia, agghiaccianti nel trovarseli vicini. Torre in H5 mangia il pedone. La linea è finalmente aperta. I Neri li vedono arrivare, intuiscono tardi lo schema infallibile e un brivido attraversa tutti i soldati. Si guardano timorosi, vedono i buchi che hanno inevitabilmente lasciato alle spalle, vedono la vulnerabilità del loro Re. I Bianchi arroganti si guardano complici: la torre era pronta ad andare a proteggere la settima trasversa e a quel punto la Regina avrebbe dato il Matto andando a posizionarsi proprio nella casa di fronte a quella del Re. Una fine indegna, l’umiliazione di perire a un centimetro dal ghigno avversario. Ma il Re Nero, sebbene conscio dell’imminente fine, non abbandonò, non si scompose, non fece nulla, a lui la partita sembrava ancora aperta. Si mosse allora il cavallo, perché toccava ai Neri, il quale arretrò in direzione del suo Re in un simbolico atto di solidarietà.
L’aria era immobile ma la terra vibrò quando la torre bianca raccolse le sue solide fondamenta e partì per la presa finale. Iniziava a spostarsi ed era quasi uscita dalla casa quando dovette arrestarsi di colpo: qualcuno dei suoi si era mosso più in fretta. Dal centro del campo la Regina era volata di fronte al Re Nero, anticipando la protezione torre.
In tutta la sua maestosa e superba ricchezza la Regina Bianca si era esposta. Scoperta dalla torre, lontana dalle ancelle, a un passo dalla diagonale sicura dell’alfiere. Una mossa sconsiderata, insensata ed enigmatica. Eppure lei stava lì, senza apparente rimorso, potente ma vulnerabile, magnifica e ad un passo dalla morte, così vicina al Re Nero da respirare la sua stessa aria. Tutti sulla scacchiera la fissarono confusi e un’espressione inebetita accomunò le due fazioni. Ma solo un istante, solo per un breve istante poiché ai Neri comparve sul volto un sorriso isterico. Ormai dispersi sul campo nel penoso tentativo di difesa fissavano bramosi il loro Re. La Regina Bianca, la fredda sterminatrice, stratega indiscussa, aveva fatto la tanto attesa mossa fatale. Già pregustavano il dolce sapore della vendetta, del riscatto: liberati dall’estenuante attacco avrebbero potuto finalmente guardare avanti e la sete di rivalsa gli schiumava tra le labbra. Ai Bianchi, per contro, mancò il respiro. Lo schema era preciso, non prevedeva improvvisazioni e ora che le reciproche protezioni erano saltate rischiavano il massacro. Amareggiati dal tradimento dalla Regina spiavano le retrovie e mentalmente programmavano la ritirata. L’euforia da un lato e lo sconcerto dall’altro impedirono ai soldati di accorgersi di cosa stesse realmente accadendo. Infatti, mentre loro pianificavano le mosse successive e si proiettavano nel futuro, in un angolo non scontato della scacchiera il tempo si era fermato. La Regina, una perfetta macchina da guerra, e il Re, l’unico vero garante della vita, si guardavano dritti negli occhi. Rimanevano così, incuranti e attoniti, persi in un’altra dimensione. I Neri scalpitavano affamati, i Bianchi contavano le perdite, ma qualcosa nell’intreccio dei loro sguardi sfuggiva a tutti. I due pezzi erano usciti dal gioco come se per loro fosse finito, come se l’obiettivo fosse stato raggiunto, come se la guerra altro non fosse che un banale pretesto. Non udivano il frastuono intorno, non vedevano i loro compagni in fermento, non sentivano più di appartenere a questo o quello schieramento.
Lei gettò a terra la spada insanguinata, sfilò l’elmo e le poche energie rimaste la abbandonarono. Lui la osservava immobile, fiero e imperturbabile.
– Ti amo.
Disse lei.
Lui sorrise compiaciuto, le accarezzò il volto sporco e altro non poté rispondere:
– Scacco matto.