casa dolce casa

Il cancello elettrico si apre senza fretta come un abbraccio al contrario. Non appena lo spazio si fa sufficiente l’auto entra adagio e parcheggia pochi metri più avanti. La donna al volante raccoglie la borsa e le chiavi di casa, scende e si avvia alla porta d’ingresso del condominio. Vince contro il desiderio di prendere l’ascensore e sale le due rampe di scale che la separano dall’appartamento pestando pesante ogni gradino.

Apre la porta e accende la luce d’ingresso con movimenti automatici. Le scivola la borsa per terra e la lascia lì dove cade. Con la testa a penzoloni e gli occhi socchiusi appoggia la giacca su una sedia che sembra trovarsi lì per quel motivo. Inciampa tra un passo e l’altro sfilandosi le scarpe lungo il corridoio semibuio. Si toglie cardigan, maglietta e canottiera come fossero cuciti insieme e li abbandona sul pavimento in un mucchio indistinto. Apre la porta della stanza in equilibrio precario, coi pantaloni alle caviglie, mentre i piedi indispettiti provano a liberarsi nel contempo anche dei calzini. Nella penombra della camera si perdono slip e reggiseno e in tempo record s’infila sotto le coperte.

Col piumino sotto il mento e gli occhi chiusi tira un sospiro di sollievo, quasi come se fosse riuscita a scappare, a fuggire da qualcosa che la stava inseguendo. Piano piano il tepore del corpo scalda le lenzuola e il microclima che si crea diventa il posto più bello sulla terra. Si quietano i pensieri, si fa delicato il pulsare del cuore, il fiato flebile è impercettibile. Il buio filtra ogni rumore e cancella le forme, si dissolve sottovoce il mondo caotico e frenetico e il tempo rallenta. Sembra quasi la pace, sembra quasi un traguardo questa dimensione senza appigli scollegata dal resto, ma non è così. Non bastano infatti quattro mura a farti sentire arrivata, a dare conforto. La meta è ancora lontana e per questo, immobile sul letto, dopo un attimo di riflessione, ricomincia a spogliarsi.

Si apre con sollievo insperato la muta lisa della pelle: dal collo all’inguine l’involucro roseo e morto scopre il rosso vivo dei muscoli. Se la toglie con una smorfia d’insofferenza rivoltandola senza cura come una muta da sub. I muscoli esposti pulsano al ritmo del cuore, li guarda, la loro superficie è liscia e inquieta. Con meticolosa pazienza infila le dita tra le fessure morbide e cerca al tatto i tendini. Quando li trova, dalla clavicola, dal gomito, dal ginocchio, li prende e li sfila come lacci di scarpe. Afferra quindi i muscoli e ad uno ad uno li stacca: i bicipiti, i tricipiti, gli obliqui dell’anca, la scacchiera degli addominali e poi giù, fino all’adduttore, il vasto mediale e laterale e i quattro gemelli. Rimangono a terra intorno a lei come palloncini tristi al ricordo di una gioia consumata. Inarca quel che resta del corpo, estrae sofferente il cervelletto col suo lungo midollo spinale e lo scaraventa contro un angolo della stanza. Giace lì il cadavere di una medusa, i cui tentacoli ancora tremano attraversati dalle ultime scariche elettriche. Stomaco, fegato, cuore, polmoni, intestino, pancreas e reni, si libera di tutto il superfluo. Svita le clavicole dalle scapole, separa le vertebre, omero, ulna e radio, femore, tibia e perone da entrambi i lati e in un attimo la struttura portante collassa come un palazzo che implode. Respira. Lentamente il sangue inerme scivola dal letto, gocciola al suolo e l’opera si compie.

Massaggia soddisfatta i calli di una giornata spesa in un corpo opprimente, chiude gli occhi e respira un senso di liberazione che quasi la commuove. Svincolata dal corpo l’energia non è più costretta da biologia alcuna e si moltiplica allegra nello spazio vuoto. I pensieri si stiracchiano e prendono forma, riempiono la stanza che ha smesso di esistere ma che rimane là, come avamposto simbolico di un mondo che non è mai esistito. Finalmente estranea al suo corpo si eleva in una dimensione a cui nessuno crede, ma questo non è rilevante. Si espande, si contrae, si fa immensa e minuscola, ha l’aspetto di un impulso che muta ad ogni nota. Il mondo circostante non è più vittima del vizio malato che hanno i cinque sensi di tradurlo in qualcosa di prevedibile e misurabile. Ora il tangibile diviene astratto e gli oggetti si trasformano nel riflesso della loro percezione. Crolla il complesso castello della logica e del pensiero deduttivo, le definizioni si rivelano fastidiose etichette da tagliare e i nomi, oh! i nomi sono solo contenitori vuoti. Si rompe senza scalpore il legame azione-reazione e ogni istinto, emozione o sentore cresce in armonia con se stesso, libero dalle aspettative mediocri di una civiltà corrotta. La volontà si arrende alle lusinghe dell’intuizione, il dolore e il piacere si abbracciano senza vergogna, la vittoria s’inchina a migliaia di sconfitte, gli obiettivi omaggiano i primi sofferti passi. Tutto è inizio e già fine, tutto è in programma e già compiuto: il passato e il futuro si mescolano in un romantico valzer sugli accordi di un presente che suona solo per loro. Fluiscono come fiumi in piena idee ebbre di entusiasmo in terre inesplorate dove i semi dell’espressione indipendente si nutrono dei resti di un’ordinarietà banale e ammuffita. In questo luogo che non è da nessuna parte, in questo tempo che è sempre stato e mai sarà, qua esplode la vita, in una manifestazione sconosciuta e accattivante, seducente e inarrestabile. Qua trova spazio, trova linfa, qua distrugge e crea se stessa.

Una luce illumina la stanza, un suono ritmico, insistente e nauseante irrompe nel silenzio e chiama ostinato. S’incrina l’atmosfera, stride una corda, la mente è richiamata all’ordine da un luogo ormai poco familiare. Ma lei non può e non vuole. Non si trova più in quel corpo dismesso disteso e nascosto che la vincola alle leggi della quotidianità. E’ lontana, è troppo distante per tornare dove qualcuno si aspetta di trovarla.

Allungo una mano e spengo il telefono.

Vogliate scusarmi, oggi no.

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