amore che vieni amore che vai

Lei era bellissima, anche se non lo sapeva. Lui era bellissimo, ma non ci credeva.

Inutile dire che insieme brillavano e che la notte scura non riusciva a nasconderli. Sedevano uno accanto all’altra su una panchina anonima di una città qualsiasi, in una limpida sera di primavera. Erano le uniche persone nella strada deserta, eppure riempivano lo spazio come una folla riempie uno stadio. I profumi dei primi fiori aleggiavano nell’aria fresca senza avere il coraggio di avvicinarsi alla coppia per paura di rompere l’aura incantata che insieme emanavano. La brezza faceva danzare le chiome degli alberi e ondeggiare l’erba, ma quando si accostava alla panchina rallentava fino a fermarsi. Solo la luna non temeva di toccare la loro pelle ancora chiara e così, nella notte scura bagnati da candidi raggi, due magnifici spettri caldi sedevano uno accanto all’altra.

Fissavano entrambi lo spazio davanti a loro senza curarsi di cosa vedessero. Erano insieme in un luogo quasi preciso, ma sembravano provenire da mondi e tempi diversi. Sarebbe stato sufficiente per uno dei due alzare appena un braccio per toccare l’altro, ma i corpi pesavano come il granito e la loro distanza si faceva sempre più ampia. Ogni secondo trascorso erano chilometri e anni luce che si frapponevano tra i due, ma l’illusione di essere vicini, solo perché lo erano effettivamente, sembrava concedere il lusso del distacco. Un’auto sfrecciò sulla strada di fronte, il semaforo divenne rosso e lo stridore violento dei freni tagliò il silenzio. Lui alzò lo sguardo, lei non aveva sentito. Un cupo boato pose fine all’urlo metallico e volate di fumo si levarono in cielo. Lui si accese una sigaretta, lei si ridestò e gliene chiese una. In quella semplice azione le loro dita si sfiorarono e scintille incandescenti scoppiarono lì, dove la fine di lui incontrò per un attimo l’inizio di lei. Fumarono in silenzio aspirando con forza e restituendo al mondo nicotina insaporita delle loro intimità. Come sarebbe stato più facile poter leggere nel fumo i frammenti dei reciproci pensieri, ricomporli piano piano fino a trovare l’uno la chiave dell’altra. Come sarebbe stato più facile trasformarsi in fumo e unirsi nell’aria tiepida, farsi trasportare dal vento tra i profumi timidi e ballare per sempre con le foglie degli alberi. Invece erano corpi seduti e una forza bruta li teneva separati. Lui spense la sigaretta con la punta della scarpa, lei inspirò l’ultima boccata.

Lei conosceva la verità e per questo stava in silenzio. Se avesse iniziato a parlare non avrebbe saputo dire altro che la verità. Si era incatenata in un silenzio forzato perché pensava che nessuno avesse il diritto di infrangere le menzogne con cui ognuno sceglie di convivere. Nessuno può strappare la carta velina che abbiamo avvolto intorno alla realtà per poterla correggere con la fantasia, sarebbe un’azione imperdonabile. Ma se avesse potuto parlare, se solo il tempo si fosse fermato per lasciare spazio a una vita dove la verità può competere con l’immaginazione, allora avrebbe detto questo.

Tu probabilmente non lo puoi sapere e neanch’io all’inizio lo sapevo, ma ora posso dire con certezza che quando sono nata qualcuno ha preso una parte di me e l’ha messa nel tuo corpo. Prima di conoscerti non avrei mai pensato che qualcosa di simile potesse succedere, ora invece non riesco a trovare altra spiegazione. Ho vissuto pensando di avere tutta me stessa convinta che qui, all’interno della barriera della mia pelle, io custodissi gelosa tutto quello che la vita mi ha dato. Ho coltivato per anni i talenti, i sogni, le passioni, ho sentito il dolore sciogliere le ossa per poi gustare il sapore deciso della rivalsa quando era necessaria tutta l’energia dell’universo. Ho preso decisioni – o non le ho prese – sulla base di quelle che credevo fossero tutte le carte che avevo in mano. Sono cambiata nel corso degli anni ed è mutato il carattere, il mio corpo si è trasformato giorno dopo giorno ed io ho sempre creduto di essere tutta qui, in questa carne che mi lega alla terra e in questa testa che mi trascina nel cielo. Avevo trovato un equilibrio che, seppure opinabile, mi si addiceva e mi piaceva. Ora non è più così: tutto quello che so di me è spaventosamente incompleto. Credevo di essere tutta e invece scopro solo adesso che tu hai qualcosa di mio. Scopro che tu sei cresciuto, sei cambiato, ti sei trasformato per tutti questi anni con qualcosa dentro di te che non ti appartiene. Non te ne faccio una colpa, ma devi sapere che quando siamo vicini sento un polo in te opposto al mio che mi chiama, mi cerca e mi fa impazzire. Vorrei addormentarti e aprirti con un bisturi per riprendermi ciò che è mio, farei spazio in me per accogliere l’ultimo tassello ed essere finalmente pronta. Tu non la sai, ma ogni volta che entri ed esci dalla mia vita sconvolgi la percezione che ho di me lasciandomi ubriaca in un mondo di astemi. Ogni volta che bussi alla mia porta sorridente e spensierato, col violino in una mano e un giornale di buone notizie nell’altra, il cuore diventa un bouquet di fuochi d’artificio. Partono missili dal petto che vanno a scoppiare dritti nel cervello mandando in tilt l’impianto elettrico del sistema mente-corpo. I tuoi messaggi nel mio telefono sono carta ingiallita in una bottiglia di vetro che il mare fa arrivare alla mia zattera. Rompo la bottiglia sul legno e leggo le tue parole “Nuota verso nord, io sono lì”. In quel momento passano la sete e la fame, il sole non brucia più e la distesa d’acqua dell’oceano è solo una piscina. Aspetto la notte con trepidazione fissando il cielo e appena vedo la stella polare abbandono la scialuppa di fortuna e inizio a nuotare. Raggiungo la tua isola e la vita ha finalmente inizio. Possiamo parlare, stare in silenzio, giocare o fare l’amore, scegli tu, io qui e ora sono arrivata a casa. I pezzi del mio corpo si scompongono e riassemblano per fare spazio al loro compagno che tu tieni in ostaggio, ma che quando siamo insieme riesce in qualche modo a tornare da me, a casa sua. E allora, come uno tsunami sulla spiaggia, un campo magnetico inonda tutte le cellule, i tessuti e gli organi. Si attivano ad una ad una fibre avvizzite e si sciolgono i tendini, la spina dorsale si raddrizza e muscoli di cui ignoravo l’esistenza ritrovano vigore. Mi trasformo non so come nella versione migliore di me: la consapevolezza leviga la pelle e una nuova forma di autodeterminazione toglie ogni tipo di paura. Ora che sono tutta posso fare tutto. Mi sento invincibile, immune al fallimento, così forte da sembrare arrogante. Gioco ad armi pari col futuro e con la morte poiché l’uno e l’altra hanno perso di significato. Sono all’apice, sul picco di Gauss, sull’Everest, sono là dove nessuno è mai arrivato. E mi dispiace per gli altri, per il mondo ai miei piedi e tutto ciò di avvizzito e sterile che mi lascio alle spalle, ma da qui voglio solo salire. Non voglio tornare nel mare di melassa malinconica dove arrancano tutti gli altri, voglio stare su quest’isola dove sento che ho la forza sufficiente per raggiungere ogni sogno mai sognato. Qualcuno potrebbe avere l’ardire di chiamarlo amore, eppure io ti odio per questo. Infatti, ogni volta che ti allontani mi costringi ad allontanarmi anche da me stessa e rimango monca nel mondo a trascinare un corpo senza vitalità. Sto provando in tutti i modi a stringerti senza che tu te ne accorga, sto cercando la distanza perfetta per averti senza violare la tua libertà. Entri ed esci, entri ed esci e la fine di questo andirivieni sarà un’uscita, non negarlo. Questo noi è vittima di uno spietato e inesorabile conto alla rovescia di cui non mi è dato sapere il tempo rimanente. L’unica opzione che ho è capire come restare della forma in cui mi trasformi per replicare in modo indipendente quel magnifico slancio vitale pur senz’averti. Fino a quel giorno però, la mia non è più vita, bensì una corsa contro il tempo per non dovermi vestire di nero e salutarmi guardando la tua schiena allontanarsi per l’ultima volta. E così sono in gara: in bilico sul filo del nostro rapporto inesistente mi sento un pazzo che si aggrappa ad un filo d’erba per non perdersi nel mondo. Vivo in uno stato di ansia costante misto ad uno zoppo autocontrollo. La tua assenza è un volto nero che la notte mi canta la ninna nanna dei condannati e durante il giorno sfotte la mia inutile tenacia. Le poesie che recitavi iniziano lentamente ad assumere altre sfumature. Quelle che prima erano parole affettuose e devote diventano ora il manifesto di una muta solitudine. Cammino a piedi nudi sulla sabbia cocente, il vento rompe le labbra secche e gli occhi colmi del sudore della fronte bruciano, ma resto in piedi. Spine di angoscia trafiggono i pensieri, la malinconia taglia i tendini e ogni passo è un’impresa ardita, ma non mi fermo. Non vedrai mai questa partita che ho iniziato contro l’Inevitabile, non vedrai la lingua stretta tra i denti o l’istinto innocente ingabbiato sottopelle. Non posso essere me stessa senza di te, ma per averti devo pianificare strategie di combattimento mascherate da saggi di danza, devo dirigere orchestre per coprire il frastuono delle bombe. Mi sono messa in trappola tra il sogno e la realtà, tra le nuvole fugaci e la roccia secolare, tra me e te. E non ho soluzione per questo, non so scendere dalla nauseante giostra che mi fa dondolare tra gli estremi del mondo, tra felicità e tristezza, tra amore e odio, tra euforia e apatia. Per questo sono qui ora, con te ma in silenzio, vicina ma lontana, insieme ma da sola.

Lentamente lasciò uscire l’ultimo sbuffo di fumo dalle labbra appena dischiuse. Ad est il cielo iniziava a schiarire e la luce ancora tenue del sole andava a svegliare i colori assopiti nel buio. Spense la sigaretta sul bordo della panchina, lasciò cadere a terra il mozzicone e appoggiò un gomito sullo schienale.

– Che poi vuoi sapere la verità…

Disse con occhi e voce bassi.

-Mi piace che quel che pezzo ce l’abbia tu…

Lui sapeva che lei sapeva, e in cuor suo la ringraziava per quel silenzio. Non voleva parlare, non voleva conoscere i suoi pensieri, non voleva più di quel calore clandestino che si rubavano di tanto in tanto. Lui era diverso da lei, o lei era diversa da lui, e mai sarebbe successo niente di diverso da quello che già li legava, o li separava. Per queste ragioni, quando spense la sigaretta con la punta della scarpa e lei inspirò l’ultima boccata di fumo, si alzò e se ne andò.