Sono un albero. Non chiedetemi quale, non è importante e fra di voi solo in pochi sanno riconoscerci. Vivo in un bosco circondato dai miei simili, anche se in realtà siamo molto diversi. Se guardo intorno a me vedo splendidi fusti, robusti e dritti, che si elevano verso il cielo. Come guardiani di un patto antico onorano al contempo terra e cielo rappresentandone lo sposalizio perfetto. Il loro tronco penetra la terra con determinazione e delicatezza e là, protette dal calore del suolo, le radici si aprono gentili in un abbraccio senza prese. Nella scura intimità sotterranea fondano la loro potenza, nel buio silenzio pulsa la loro più straordinaria fonte di vita. E da quel fermo tacere esplodono impavidi, dal suolo al cielo corrono veloci in una gara giocosa di chi arriva per primo a toccare le nuvole. Li vedo tutti: svettanti e maestosi portano le loro chiome a solleticarsi al sole. Le foglie ballano nella brezza oscurando il cielo e solo quando il vento agita i rami la luce trova spazio per raggiungere la terra. Allora, cascate di luce intermittenti animano l’aria, portando nell’ombra qua sotto un assaggio d’infinito.
Io non raggiungo neanche la metà della loro altezza. Per me la sventura è cominciata che ero ancora un seme, quando sono caduto sopra una ceppaia. Le radici di un giovane alberello non possono certo infilarsi nel legno, così ho sprecato un sacco di energie per aggirare il disco del mio compagno e riuscire finalmente ad affossare le radici nella terra. È stato un viaggio infinito, ma alla fine ce l’ho fatta. Ora la vecchia ceppaia si è degradata ed è scomparsa e io sembro una palafitta: le radici entrano nella terra come delle zampe di ragno e il mio fusto incomincia a mezz’aria. Sono un albero con le stampelle, denudato nel suo connubio con la terra. Come se non bastasse, a un metro il mio tronco compie una brusca curva verso il basso. Mentre crescevo infatti qualcuno spezzò il mio apice e mi privò dell’orientamento verso il cielo. Così, prima verso il basso, poi in orizzontale e infine di nuovo verso l’alto, ho ritrovato la strada designata a noi piante. Ma ormai era troppo tardi, potevo scordarmi il cielo: vedevo dal basso le chiome dei miei compagni ad altezze vertiginose e ho capito presto che il mio destino sarebbe stato un altro. Dovevo assolutamente trovare il modo di cavarmela con quella poca luce che filtrava saltuariamente dalle loro fronde. Ho quindi abbandonato l’idea di crescere in altezza e ho investito tutto sui rami. Come un folle li ho lanciati a destra e sinistra, avanti e indietro. Serpenti storpi e deformi emergono dal mio tronco bislacco per portare le foglie là, dove a volte arriva misericordiosa un po’ di luce. Non ho ramo che cresca dritto, non ho un metro di fusto verticale. Mi trovo all’ombra dei miei simili e da essi condannato a strisciare nel vuoto sperando di racimolare qualche avanzo di sole. Vivo così, senza onore, senza bellezza, senza grazia. Sono un invalido colpevole solo di essere sopravvissuto, monco e rattrappito in una foresta che pare dipinta, relitto importuno di un scherzo senza perdono.
Sono una scolaresca. Un’orda di ragazzini urlanti venuti nel bosco in cerca di ristoro. Scorrazzano liberi tra gli alberi giganti nascondendosi dietro i tronchi larghi o raccogliendo qualche ramoscello secco. Bazzicano qua e là vagamente delusi da questo bosco irraggiungibile, dove i fusti sono colonne e le chiome il tetto. Ma poi, ecco che alcuni lo vedono, l’albero più bello del mondo. Ce n’è uno laggiù, più piccolo di tutti gli altri, che sembra essersi chinato al suolo per un eterno e impacciato saluto. Il suo tronco gira e rigira, cento volte si volge al cielo e cento volte alla terra in una ritmica danza che ferma il tempo. Le braccia sinuose dirigono la complessa orchestra delle foglie e la chioma riempie l’aria del suo assolo spensierato. I bambini corrono euforici verso la nuova sorpresa e non appena la raggiungono cavalcano il fusto trasformandosi in cowboy nel far west. I più fantasiosi infilano le gambe sotto le radici ed ecco radici di carne, altri si aggrappano ai rami bassi e si issano come scimmie oppure scalano l’albero perdendosi nel labirinto dei rami intrecciati. Giocano, si rincorrono, cadono e si arrampicano di nuovo. Tra grida festanti e gare di abilità hanno fatto dell’albero il loro totem, quella pianta che per loro si è inginocchiata, che non è fuggita lontano, che è rimasta coi piccoli. L’hanno investita di un significato segreto e intorno ad esso costruito un mondo incantato. Un attimo di eterno regalato alla gioia incompresa.
Sono la Vita, e mi turba come non capiate che di voi ho fatto la mia opera d’arte.